L’esperienza di Gustav Brenner a Ferramonti attraverso gli occhi della figlia Pina

Incontro della memoria con la giornalista Francesca Rennis

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    Una signora dai modi gentili che infonde rispetto non solo per quel suo sguardo attento a ciò che la circonda e alla partecipazione di sé che dona col suo incedere elegante e con la sua voce. Forse perché non riesce a nascondere quella motivazione interiore che la spinge al ricordo e che è ormai caratteristica indelebile del suo carattere ma che le dona come qualcosa di etereo e sfuggente. O forse sarà perché ho intravisto in lei qualcosa, quel “quid” che ci accomuna nella ricerca interiore e che non ci fa essere mai soddisfatti di noi stesse. L’incontro con Pina Brenner è possibile chiamarlo empatico, di ascolto reciproco anche se doveva essere un’intervista a lei che ha raccolto l’eredità del padre internato a Ferramonti. Ma nell’internamento, per quanto vissuto in modo diverso da uomini, donne e bambini che ne sono stati colpiti, rimane come un sottofondo, un luogo altro della conoscenza e delle emozioni, impraticabile e lontano eppure raggiunto da leggi ingiuste e pratiche umane. Le favole con l’orco cattivo uscite dalla fantasia si sono tramutate in una realtà lontana che, a sprazzi, ricompare nella cronaca quotidiana per indicarci che se non facciamo nostri i problemi di sopravvivenza che derivano da guerre e violenze e che inducono all’emigrazione forzata, questi potranno un giorno ritorcersi contro noi stessi.

    L’incubo dell’internamento in cui le persone perdono la propria dignità perché dipendono dalla disponibilità o dalla cattiveria dell’aguzzino, da gesti trasgressivi o paternalistici, ricompare dunque senza tregua. Dal suo racconto la mia voce interiore ripeteva come in un coro della tragedia greca: «Il presente tradisce ancora la lezione di Auschwitz». Nell’internamento si ritrova una memoria condivisa. «Anche mio padre lo è stato come Imi….». E allora ti accorgi di una vicinanza, quella che solo la memoria storica può consegnare ai singoli, la vicinanza di un’esperienza comune nella diversità delle situazioni. Un’esperienza di annientamento ontologico, di privazione e illibertà fino alla morte fisica. Sentire il racconto delle peripezie passate da Gustav Brenner dalla viva voce della figlia Pina ha un altro spessore. Così come acquista una luce nuova la comprensione del sé. Pina che si è sperimentata in diverse forme espressive per pronunciare ciò che si può solo balbettare, perché indefinibile, trova la ragione di questa infaticabile ricerca. «Nonostante le tante sofferenze mio padre mi ha sempre insegnato a non perdere la speranza. Anche nei momenti bui della mia vita – dice l’artista – l’esperienza di mio padre è stata per me un ancoraggio prezioso, in ogni cosa ho intravisto un’evoluzione positiva.

    E’ stata un’esperienza che indirettamente ha riguardato anche me, ma in modo da essere da sprono e incoraggiamento. Devo a lui, intellettuale viennese di pensiero liberal-socialista, contrario all’Anchluss e quindi vicino al cancelliere Dollfuss, una formazione critica contraria a degenerazioni ed estremismi, il dono di quel patrimonio umano derivante dalla tradizione culturale ebraica e dalla cultura viennese che gli hanno permesso di sopravvivere e consegnarci un messaggio e una vitalità diverse da quelle che invece ci ha lasciato Primo Levi». Forse Ferramonti è stato per Brenner come un cuscinetto che ha saputo attutire l’esperienza vissuta nei campi nazisti di Dachau e Buchenwald, dove è stato costretto ai lavori forzati di costruzioni, trasporto, demolizioni e dove ha subito i maltrattamenti riservati agli ebrei. E sfogliando tra i ricordi Pina mi mostra una lettera che suo padre scrisse alla madre Philippina Binder proprio da Dachau. E poi la vita nel campo di Ferramonti. «Ferramonti rappresenta per mio padre – spiega la figlia Pina parlando al presente – l’ultima tappa di un percorso irto e doloroso che gli ha consentito di sopravvivere».

    Quel campo nelle paludi malariche attraversate dal Crati, sottoposto al rigido regolamento fascista, gli aprì uno spiraglio inaspettato sia per gli incontri con altri intellettuali (nel campo tra gli altri c’erano lo psicoanalista Ernst Bernhard e il libraio Werner Prager) sia per le uscite che gli erano consentite per acquisti di alimenti che non si trovavano nel campo. Il destino stava così cambiando le sue carte favorendogli quell’incontro con la donna che gli avrebbe illuminato tutta la vita, Emilia Iaconianni. Si sposarono nel 1947 e con passione e grande spirito d’intraprendenza avviarono insieme l’attività che dopo la liberazione ufficiale del campo lo avrebbe condotto a Cosenza. Pina mi riporta indietro nel tempo mostrandomi due foto di allora.

    Francesca Rennis

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