‘Sciopero docenti universitari giusto ma valutarlo alla luce del fallimento dell’intero sistema’

University Crack: "E' in atto la dequalificazione del sapere sottemosso alla logica del profitto"

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    Dallo scorso 28 agosto, circa 5 mila docenti di 79 università scioperano per il blocco degli scatti stipendiali. Lo sciopero riguarda il primo appello degli esami, e alle motivazioni economiche si sono associate le denunce ai tagli che l’università ha subito in questi anni, alla ricerca e al diritto allo studio. Quello del blocco delle classi e degli scatti stipendiali è un problema che riguarda lo smantellamento dell’università pubblica e democratica. Una dismissione in corso da anni che ha colpito i contratti dei professori ordinari, la situazione dei ricercatori, la qualità della didattica e della ricerca. Un disfacimento avvenuto nell’ottica della sua ristrutturazione in senso neoliberale: un’università sempre più privata, aziendalizzata, escludente, succube dei profitti.

    Dalla riforma Berlinguer-Zecchino, che inaugura le lauree triennali,da Tremonti, a Gelmini arrivando al governo Renzi, l’università pubblica è stato uno dei settori del welfare che ha subito maggiormente l’attacco delle politiche di austerity. L’Italia secondo un rapporto del 2014 dell’Ocse spende meno di tutti nell’università (0,8 per cento del pil) e investe per l’istruzione di ogni studente universitario 7.815 dollari all’anno, rispetto ad una media Ocse di oltre 12.000 dollari all’anno, ed ha la percentuale più bassa di laureati dell’intera Unione Europea. Si è assistito ad una drastica riduzione del Fondo di Finanziamento Ordinario e l’illogicità dei criteri di ripartizione del fondo. Il fondo è amministrato centralmente dall’Anvur che valuta gli atenei e la ricerca a livello centralizzato, valutando e punendo su basi premiali e meritocratiche, la quota premiale compone la maggioranza dei fondi e con questo criterio si è assistito negli ultimi anni ad una disparità tra i vari atenei. Aumentata è la precarietà di ricercatori e dottorandi, la competizione e la ricerca di accaparramento di posti, progetti e pubblicazioni. Le dinamiche interne alle università su come vengono gestite le borse di studio, gli assegni, i dottorati, portano i precari della ricerca ad una condizione di semi-schiavismo, di lavoro gratuito, di sempre maggiore ricattabilità. Il blocco del turn over, mantenendo nel precariato generazioni di ricercatori, ha creato un sistema chiuso e bloccato e concentrato il potere nelle mani di pochi. Il corpo accademico è composto soprattutto da assegnisti di ricerca, dottorandi e ricercatori a tempo determinato, figure poco pagate che vivono un’incertezza lavorativa dovuta al sottofinanziamento degli atenei, alla disponibilità di estemporanei fondi di un dipartimento, di un singolo professore o di progetti e consulenze private.

    La diminuzione dell’offerta didattica, la chiusura di molti corsi universitari, le condizioni del lavoro accademico hanno trasformato l’università da centro dei saperi ad esamificio e fabbrica di precarietà. Le competenze e le conoscenze acquisite spesso rimangono parziali e imbrigliate nei limiti, nei tempi dei crediti universitari e nel dogma della professionalizzazione incarnata dalla logica delle lauree 3+2. Sono aumentate le ore di tirocinio gratuito a scapito dell’apprendimento, molti studenti si trovano privi del diritto alla riduzione delle tasse, ad avere un alloggio, alla mensa gratuita, a servizi di trasporto efficienti e di qualità. I nuovi ricalcoli del reddito Isee, rivedendo i parametri, hanno alzato i valori della stragrande maggioranza dei nuclei familiari. L’aumento delle tasse è servito in parte per risanare i bilanci disastrati delle università, dall’altro in termini di esclusione dall’accesso agli studi. Il nuovo calcolo Isee, dividendo gli studenti in meritevoli e non meritevoli, costringe studenti fuori sede a lavorare sottopagati e, spesso in nero, nei vari call center, bar, ristoranti, sottraendo ore allo studio, alla socialità, ad una formazione di qualità. Aumento delle facoltà a numero chiuso, accrescimento delle tasse, difficoltà ad accedere alle borse di studio, diminuzione dei servizi per gli studenti, chiusura di spazi comuni e biblioteche stanno creando un’università elitaria e disciplinata. Il processo in corso è finalizzato a tagliare fuori dagli studi una parte di studenti.

    Nei prossimi anni soltanto chi proviene da famiglie a reddito alto potrà permettersi l’accesso agli studi universitari, sono a proposito emblematiche sono le parole della Ministra Fedeli di qualche giorno fa: “Una delle cause maggiori è la provenienza delle famiglie, famiglie con basso reddito che quindi poco spingono per la formazione universitaria di alto livello”, secondo lei questo è il motivo della diminuzione del numero dei laureati. La dismissione dell’università, la dequalificazione del sapere, l’aumento delle ore di tirocinio obbligatorio sono connesse al mutamento del lavoro e del capitalismo. Si vuole creare un soggetto disciplinato e precario: capitale umano altamente qualificato da usare profittevolmente come forza lavoro a basso costo. Lo sciopero dei docenti, è mosso da giuste motivazioni ma, se non si guarda alla crisi del sistema universitario nel suo complesso, rischia di finire nella sterilità, nell’indifferenza e di essere tacciato di bieco corporativismo. Si deve guardare a tutte i soggetti che compongono l’università e che in questi anni hanno subito i tagli e le riforme, e collocare lo strumento dello sciopero sul piano di un confronto collettivo. Rifiutare il paradigma securitario e aziendalista e usare questa occasione per aprire ad un nuovo protagonismo e ad una partecipazione, scevra da ogni tipo di logica individualista e che punti ad un conflitto comune per mettere in discussione l’intero funzionamento dell’università.

    Alessia Rausa

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