Uccise il figlio undicenne: diventa definitiva la condanna per Daniela Falcone

La "Medea" cosentina dovrà scontare 14 anni. Il delitto avvenne il 1 marzo del 2014

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    La conferma di un verdetto. Di condanna. Molto pesante, sia dal punto di vista morale che penale. I giudici della Corte di Cassazione, rigettando il ricorso dell’avvocato Gianluca Serravalle, hanno chiuso, con il sigillo della ceralacca, l’iter giudiziario sulla morte, tragica, di Carmine De Santis, “strappato” all’affettuoso abbraccio della vita, dalla mamma Daniela Falcone. Carmine aveva solo 11 anni, sua mamma 43. Il delitto che, scosse e commosse l’opinione pubblica, avvenne nella tarda mattinata del 1 marzo del 2014. Il piccolo, venne preso anticipatamente a scuola da sua mamma, caricato in auto e portato in una zona isolata di campagna tra Cosenza e Paola. Pensava che sua mamma, gli volesse regalare un giro. Carmine era sorridente. Mai, avrebbe potuto immaginare che quell’auto, sarebbe diventata la sua tomba. E, ancor di più, mai avrebbe immaginato che sua mamma, quella che la sera gli rimboccava le coperte, quella che lo riempiva di baci e di carezze, quella che gli cantava le ninne nanne, l’aiutava a fare i compiti e l’aveva portato in grembo per nove mesi, potesse, di colpo, diventare il suo carnefice. Spietato e cieco. Daniela Falcone, dopo aver rimediato, in primo grado, una condanna sedici anni, ne aveva ottenuta un’altra in Appello, con un “abbuono” di due anni. E, oggi, dopo il pronunciamento dei giudici della Suprema Corte, quei 14 anni, sono diventati definitivi. L’avvocato Gianluca Serravalle, sin dall’assegnazione del difficile caso giudiziario, ha tentato, in tutti i modi, di far emergere tutta la difficile situazione psicologica della sua assistita. Una donna che, dopo aver scoperto una relazione extraconiugale di suo marito, era caduta in un precipizio. Mentale, morale. Neanche le tante perizie psichiatriche, a cui la donna è stata sottoposta, hanno “impietosito” la Corte. Perizie da cui è emerso che, Daniela Falcone, prima uccidendo suo figlio, poi tentando di togliersi la vita, avesse provato a mettere in atto un suicidio allargato (un omicidio-suicidio, il classico suicidio allargato, che ha due chiavi di lettura: quella di porre fine alla vita dei figli nella convinzione che non potranno sopravvivere senza genitore o quella di punire il partner, strappandogli il tesoro più grande, appunto una parte di sé, il gesto di Medea che punisce così Giasone, ndc). Una domanda, nasce spontanea: poteva essere evitato tutto questo? Chi lo sa. Forse la 43enne, alcuni segnali, di insofferenza, di difficoltà, di profonda disconnessione psicologico-emozionale da se stessa e verso gli altri, l’aveva anche manifestata. Ma, nessuno, è stato in grado di leggerla. Nessuno, è stato bravo ad analizzarla. Nessuno, è stato pronto a “disinnescarla”. Il legale cosentino, sin dall’assunzione di incarico, ha sempre puntato la sua attenzione su un black out emozionale e mentale contro il marito, reo di averla tradita e di mantenere in piedi una relazione extraconiugale. Una relazione che non era una semplice scappatella, né un banale capriccio carnale, ma qualcosa di importante. Tanto che il marito di Daniela Falcone, da questa donna misteriosa aspettava anche un figlio. La confessione di quel tradimento, ammessa al termine di un litigio, forse l’ennesimo, mandò in tilt l’interruttore nevralgico di Daniela Falcone che, già provata interiormente dalla mancanza di un lavoro, dalla precarietà economica, dall’incertezza sul suo futuro e su quello dei suoi affetti, cercò di trovare nel volontariato, nella frequentazione della Chiesa e dei gruppi di preghiera, un parafulmine mentale per andare avanti. Ma, per come è andata a finire, questo parafulmine non ha funzionato per niente.

    LA TRAGEDIA

    Quella mattina del 1 marzo, Daniela Falcone, uscì di casa e si diresse verso scuola di suo figlio. Entrò in aula e chiese alla maestra di poter prendere suo figlio prima. L’undicenne, felice di stare più tempo fuori che dietro un banco, allettato dalla proposta di sua madre di andare a fare una gita, non esitò nemmeno un secondo a seguire sua madre in quella passeggiata verso l’ignoto, in quella scampagnata verso la morte. Daniela e suo figlio imboccarono la via dell’appennino paolano. Arrivati in un bosco, incontaminato e protetto dalla vegetazione e dalle bellezze della natura, Daniela attuò il suo piano di vendetta. Prima offrì a Carmine dei gustosi succhi di frutta, corretti con tranquillanti, poi, quando le forze e i riflessi dell’undicenne s’addormentarono, s’accanì contro di lui sfigurandolo, massacrandolo, violandolo, finendolo con un paio di forbici. Quelle stesse forbici che poi utilizzò contro se stessa, ma che non servirono nel suo intento punitivo-suicida. La denuncia di scomparsa, fece scattare i soccorsi e le ricerche. Due giorni dopo la scomparsa, i poliziotti ritrovarono l’auto con dentro la Medea e il martire 11enne che, ha pagato con la sua vita, la fine di un patto d’amore, d’affetto, di stima e di complicità. Una promessa d’amore non mantenuta da due adulti, fatta scontare ad un ragazzino. Pieno di vita e di sogni, ricco di sorrisi e di spensieratezza. Sin dal suo arresto Daniela Falcone ha sempre urlato la sua innocenza, ha sempre “protetto” il suo Carmine, ha sempre negato di essersi macchiata di un delitto così atroce, così abominevole, così efferato, così inconcepibile, così brutale. Sin dal suo arresto, Daniela Falcone è stata studiata, letta, analizzata, vivisezionata interiormente, mentalmente ed emozionalmente da un team di strizzacervelli. Un team, scelto dall’avvocato Gianluca Serravalle, un team di esperti che ha percorso il labirinto mentale di Daniela. La mente di Daniela Falcone, come la sua anima macchiata di sangue e d’anaffettività, è un groviglio di strade, dove la vita e la gelosia s’incrociano allo svincolo con la morte e la disperazione. Morte e disperazione che l’accompagneranno per tutto il resto della sua vita.

    Carmine Calabrese

     

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