Delegazione del Partito Radicale visita il carcere di Cosenza

Occasione, la raccolta firme sulla separazione delle carriere

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    La Casa circondariale di Cosenza ha avuto la visita l’altro giorno di alcuni esponenti, a vario titolo, del Partito Radicale, con precisione Sergio D’Elia, Rita Bernardini, Antonio Cerroni, Ernesto Biondi, e Gianpaolo Catanzariti, avvocato Camere penali di Reggio Calabria. L’occasione era la raccolta di firme per la proposta di legge per la separazione delle carriere in Magistratura e, naturalmente, la verifica delle condizioni in cui vivono i detenuti, dal momento che alcuni della delegazione del PR sono parte attiva anche dell’associazione Nessuno tocchi Caino. Hanno approfittato della cosiddetta ora d’aria, il momento in cui i detenuti erano nella sala in cui si ritrovano per fare insieme due chiacchiere. Qui hanno potuto constatare che l’arredo è molto minimal, ma non come scelta di un certo tipo di arredamento di tendenza, ovviamente: pochi tavoli e ancora meno sedie. Un calcio balilla per lo svago. Chi ha voluto, ha firmato e ha parlato con i radicali, raccontando le proprie vicende personali, in qualche caso lasciandosi andare in un vero e proprio sfogo: c’è chi, ad esempio, aspetta da due anni di essere sottoposto a un’operazione al ginocchio. Sono in totale 249, a fronte di una capienza regolamentare di 218 posti; molti extracomunitari. Per lo più, internati per reati comuni, stipati in 5 o 6 in una cella, hanno a disposizione, come altrove, un televisore per vedere canali nazionali, non è consentito loro l’uso del cellulare né del computer. Possono, se vogliono, preparare da mangiare in un piccolo antibagno, dove tengono un fornellino, ma devono usare per forza pentole di un diametro inferiore ai 22 cm. Tuttavia, potendo fare la spesa allo spaccio un giorno solo a settimana e avendo a disposizione un congelatore a pozzetto nel corridoio, diventa improbabile cucinare in cella spesso e per tutti contemporaneamente. Tutto sommato, il carcere di Cosenza rientra negli standard medi nazionali, anzi, alcuni degli ospiti lo definiscono un albergo a 4 stelle a paragone di altri. Il problema non è questo, o non è solo questo. La vera questione urgente per i radicali è il soprannumero e la quasi totale assenza in Italia di percorsi di rieducazione. Come si evince dal bel film Spes contra spem di Ambrogio Crespi, raramente chi è detenuto esce dal carcere una persona migliore di quando vi è entrato. Eppure, la detenzione ha come obiettivo nobile e prioritario il recupero del recluso. Quando uno di loro decide di raccontarti la sua esperienza, portandoti nel labirinto della sua coscienza e nell’abisso del suo animo, trovi sempre e comunque un uomo di fronte a te: proprio lì si acquisisce la consapevolezza che nessuno, in fondo, sia completamente Abele né completamente Caino. Lasciare spazio alla speranza significa salvare, in chi ha commesso un reato, la sua dignità di uomo e riconsegnarlo più consapevole alla società. Nel film un detenuto afferma: “”In carcere ho capito cosa significhi essere libero di non sbagliare”. Un pensiero profondo, che chiama in causa la società tutta, la sua struttura, le sue dinamiche interpersonali, le opportunità e le esclusioni. Nel carcere di Cosenza l’altro giorno si sono presentati ai visitatori due persone provenienti dallo stesso quartiere, amici di infanzia, di cui però uno era il detenuto, l’altro la guardia carceraria. Il tessuto sociale è fondamentale, ma entrano poi in gioco altre dinamiche. Probabilmente, le risposte a stimoli diversi sono state le stesse, o viceversa. Ma a tutti si deve dare un’altra possibilità. Come ha affermato lo stesso D’Elia, ex terrorista Prima linea, dodici anni di reclusione, in una vita si sbaglia, nell’altra si sconta, nella terza si racconta e si testimonia.

     Tania Paolino

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