Clara e quelle lacrime che lavano sofferenze, sensi di colpa e passato

LE STORIE ESCLUSIVE DI COSENZAINFORMA.IT Aveva deciso di farla finita. Salvata da un angelo e dall’amore per suo figlio

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    Secondo piano, scala E. E’ qui che abitava l’inferno. Sì, avete letto bene, l’inferno. Quello di Clara (il nome è di fantasia, ndc) casalinga 36enne materana di nascita, cosentina per adozione. O meglio, per amore. Clara, finita per mesi o forse per anni, nelle grinfie di quell’uomo, mai accettato dalla sua famiglia e non visto di buon occhio dai suoi amici, (lo chiameremo Gianfranco, informatore scientifico di 38 anni, ndc) con cui avevo deciso di andare a convivere, ha messo al mondo un figlio e con cui credeva di aver costruito una vita felice. Già felice. Un tempo. Troppo lontano. Di quel tempo le è rimasto solo il ricordo. Oggi quel tempo non esiste più, quella felicità familiare è finita per i troppi calci presi, per le troppe umiliazioni, per l’infinità di botte che è stata costretta a sopportare. L’ha fatto sempre in silenzio, l’ha fatto sempre con dignità, con la speranza che quell’incubo finisse. Clara, purtroppo per lei, ormai con le botte ci aveva fatto l’abitudine. I segni di quelle “carezze” violente, li portava sul viso come fondotinta. A volte, per nasconderle a vicini, amici e conoscenti, doveva aumentare l’intensità del trucco o far ricorso al più super efficace dei correttori. Ma le ferite dell’anima, quelle non si cancellano. Non basta tutto il fard del mondo a nasconderle. Il compagno di Clara alzava le mani su di lei, anche senza un perché. A volte bastava anche un filo di pasta scotta, un colletto di camicia poco inamidato, il non trovare pronto a pranzo o a cena. O qualunque altro pretesto. Anche il più insignificante. E la violenza inaudita del suo compagno, non si fermava nemmeno davanti al figlio. Proprio come è successo l’ultima volta. L’ultima scena, risale a tempo fa. Clara, dopo aver visto con la coda dell’occhio che il suo compagno stava per entrare nel cancello con l’auto, ha aperto la porta di casa ed è andata in stanza a sistemare della roba. Alcune cose da conservare, altre da stirare. Ha avuto giusto il tempo di salutare Gianfranco, prima di essere aggredita da lui. Verbalmente e fisicamente. Offese, calci, pugni, schiaffi. E ancora sedie lanciate in aria, suppellettili schiantati con forza contro le pareti di casa e perfino le scarpe da lavoro, pesanti e sporche gettate addosso alla moglie. Clara è in lacrime, singhiozza, non ha la forza di reagire, di ribellarsi. Non ha più voce, nemmeno per dire basta. Le urla che provengono dall’appartamento di Clara e Gianfranco allarmano i vicini, ormai abituati a queste scena di ordinario delirio, ma non fanno più notizia, neppure clamore. Il figlio, scioccato da quella scena di inaudita violenza, cerca di fare da scudo a sua madre, ma è troppo piccolo, troppo inerme per fermare la brutalità di suo padre, trasformatosi in energumeno. Prima che la lite finisca in tragedia, il ragazzino esce di corsa di casa, sale con lo scatto di un velocista due, tre rampe di scale e arriva a bussare alla porta degli zii. Con le lacrime agli occhi chiede aiuto. “Venite, venite, papà sta picchiando mamma, aiutatela. Aiutatela”. Quando i parenti di Clara arrivano in casa, lei è semi svenuta a terra. Ha gli occhi gonfi, il labbro sanguinante, il vestito strappato. Ha la voce flebile, e fatica perfino a respirare. Clara, però, non vuole aiuti istituzionali. Non vuole essere soccorsa dai medici e paramedici del 118, né essere sorretta e difesa dagli inquirenti. Non vuole. Per paura, per omertà, per vergogna. Per la vergogna di aver fallito, per sua stessa ammissione “come donna, come compagna, come entità femminile”. “Pensavo di cambiarlo. Noi donne, portiamo in grembo, non solo la vita e in testa la forza, ma portiamo, pericolosamente dentro, anche l’istinto da crocerossina. Ma, spesso, sbagliamo, perché esistono uomini che, di essere salvati, non ne hanno nessuna voglia”. Clara, perseguitata dagli schiaffi di Gianfranco e umiliata da se stessa, aveva tentato di uscire dalla “prigionia” con una scelta estrema. Un finale, riscritto da un angelo: Carlo. Quel giorno, Clara, aveva deciso tutto: il pranzo della festa, il vestito buono, il trucco perfetto, lo smalto colorato e il cocktail micidiale da bere. Tutto d’un fiato. Clara, s’era recata in farmacia, per prendere i medicinali per sua madre. Quelli con cui voleva “guarire” per sempre. Lungo la strada, poco prima di una nota farmacia del centro, Clara incontra Carlo, componente di un gruppo d’ascolto sociale. Per Carlo, (laureato in Legge, specializzato in criminologia e con un debole per le imprese impossibili e le sfide difficili) quell’incontro è molto più di un incontro. Il volto triste di Clara, i suoi occhi spenti dicono tanto, dicono tutto. Dicono anche di quell’intenzione terribile. Di farla finita. “Qualunque cosa tu abbia in mente, – le dice Carlo – aspetta. Non fare fesserie, rifletti. Pensa. Fallo per tuo figlio”. La parola figlio, fa scattare in Clara un campanello d’allarme. Clara entra in chiesa, parla con Carlo, si confida con lui e in un pianto dirotto si “libera” di tutto. Delle botte, delle ferite e dei suoi sensi di colpa. Clara è rinata. Ha “ripartorito” se stessa, ha rimesso al mondo la sua serenità, ha riscoperto l’amore. Per se stessa, per suo figlio, per gli altri.

    Carmine Calabrese

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